Nelle aziende odierne si
conta una presenza sempre maggiore di personale straniero lavorante fianco a
fianco di quello italiano, in un contesto multietnico. Questa realtà porta a
delle difficoltà aggiuntive nei posti di lavoro che si possono tradurre in
fraintendimenti, cali della produttività, conflitti ma anche in vere e proprie
sfide per la sicurezza del lavoratore.
Vi sono vari fattori che
possono ostacolare la comunicazione tra persone di varia cultura. I principali
sono gli stereotipi ed i pregiudizi, che creano conflitto e diminuiscono il
dialogo, il possibile basso livello di acculturazione del lavoratore straniero,
che non comprende il linguaggio ed i segnali della cultura locale, compresi
quelli relativi alla sicurezza sul lavoro, e lo shock culturale.
In alcuni casi si cercata
di ovviare a queste problematiche creando dei reparti mono-etnici, in cui i
lavoratori provenissero tutti dalla stessa nazione. Questa soluzione non è però
la più scontata, visto che etnie e gruppi in conflitto tra loro possono
provenire dallo stesso Paese. Inoltre, questo metodo non rappresenta una
soluzione nel superamento dello shock culturale del lavoratore straniero, anzi
lo rende ancor più isolato nella sua cultura d’origine e lo mette a rischio
depressione e marginalizzazione.
Lo shock culturale è
difatti composto da più fasi che possono avere una durata variabile e che possono
sovrapporsi. Queste fasi sono state analizzate e descritte da Oberg,
antropologo americano laureatosi in diverse università prestigiose tra cui
quella della British Columbia dalla quale è nata l’idea di teoria e ricerca
sullo shock culturale. La prima fase è quella della così detta luna di miele,
nella quale l’individuo è affascinato dal Paese d’arrivo fino a non vederne i
difetti. In questa fase tutto sembra andare per il meglio, la persona migrante
è molto positiva e pronta ad accettare tutte le caratteristiche del Paese e
della sua cultura. A poco a poco, però, le difficoltà iniziano ad emergere
facendo capire all’individuo che la sua vita non sarà facile, soprattutto a
causa del suo status di migrante.
A questo punto entra in
gioco la seconda fase, quella della disintegrazione dei riferimenti, nella
quale la persona straniera comincia a scontrarsi con i primi problemi di
carattere culturale, coi pregiudizi e si sente incompresa e persa. In questa
fase, l’individuo comincia a sentirsi frustrato e può presentare cali di
attenzione o affaticamento accompagnati da disturbi psicosomatici e da un calo
delle difese immunitarie. Successivamente, l’individuo comincia ad acquisire le
conoscenze della cultura locale, sentendosi però ancora frustrato dalla propria
diversità.
Da questa fase si possono
avere due possibili evoluzioni. La prima avviene quando l’individuo comincia ad
adattarsi alla cultura del Paese unendola alla propria e costruendosi il suo
biculturalismo. Per fare ciò l’individuo deve essere in grado di sentirsi
accettato e di distinguere pregi e difetti della propria cultura e di quella
del Paese d’arrivo.
La seconda situazione che
può crearsi è quella di un individuo frustrato, depresso, marginalizzato e
chiuso in sé stesso che provi ostilità per la cultura del Paese di residenza.
Questa situazione è, ovviamente, quella che può portare problemi all’interno
dell’ambiente di lavoro con lavoratori tendenti al conflitto, con possibilità
di presentare depressione, insonnia o altri sintomi psicosomatici e aventi cali
di attenzione. Trattandosi di una situazione che tutti i lavoratori migranti si
trovano a vivere, seppur in maniera diversa e con tempistiche differenti,
diventa auspicabile per l’azienda la creazione di un clima che favorisca il superamento
positivo dello shock culturale e che permetta un adattamento rapido del
lavoratore straniero alla nuova realtà culturale.
Nel superamento dello
shock culturale entrano in gioco diversi fattori. Il più importante è quello
della personalità, che porta l’individuo ad essere più o meno estroverso, ad
avere o meno un forte controllo su sé stesso e a ricercare o meno l’efficienza
personale. Questo primo fattore non può essere modificato dall’azienda, essendo
strettamente personale. Il secondo fattore è il livello di empatia
dell’individuo, essa infatti può aiutarlo nella comprensione più o meno rapida
delle persone di diversa cultura. L’ultimo fattore è composto dalle strategie
di coping messe in atto dall’individuo. In questo ultimo insieme di strategie
si può inserire un contributo, del team di lavoro o dei singoli colleghi, atto
all’accorciamento del periodo d’impatto negativo e alla diminuzione di stress,
disturbi psicosomatici e cali di attenzione.
Fonte: PdE,
rivista di psicologia applicata alla sicurezza e all’ambiente
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